Insultato su Facebook per ore, la sua colpa? un caso di omonimia
Da mesi usiamo questo blog anche come una sorta di agorà delle problematiche tipiche dei social network: conoscerle per poi affrontarle o prevenirle. Si parte dalla presunta sicurezza dei nostri dati, passando per i troll o le stesse bufale. Ma soprattutto l’hate speech e in generale gli scontri tra utenti digitali rappresentano la zona grigia di questo mondo. Il sapere come e quando intervenire, ed in che modo evitare di finire in mezzo a questi “dissidi digitali” . Oggi ci occuperemo di una sfumatura non sempre trattata ma che spesso può creare problematiche pesanti a vittime del tutto ignare. Un soggetto può finire insultato su facebook per ore, avendo come unica colpa la sola sfortunata coincidenza di avere un nome troppo simile ad un personaggio sbalzato ai fatti di cronaca in chiave negativo.
Una brutta storia
Negli scorsi giorni, si è discusso del caso di Said Mechaout. Un serial killer reo confesso dell’omicidio di Stefano Leo, un ragazzo che transitava nella zona dei murazzi a Torino. Il movente non è ancora chiaro, tra la possibilità che la vittima assomigliasse in maniera tragica al fidanzato della sua ex convivente o ad un folle raptus che l’abbia portato ad uccidere una persona a caso che passasse di là. Ciò che però rientra nel contesto della storia è la figura del tutto estranea agli eventi, un certo Said Machouat, che su Facebook si è ritrovato improvvisamente a passare delle ore di inferno per un mero caso di semi omonimia.
Uno scambio di persona
Il signor Machouat, nelle ore successive al delitto e una volta rivelato l’omicida, si è visto recapitare minacce ed insulti sul suo account. Tramite commenti e messaggi privati. Da cittadini che riversavano il loro odio, da bersaglio sbagliato, sul povero malcapitato. Non li ha fermati nemmeno le differenze di vocali nel cognome rispetto all’omicida, che avrebbe dovuto essere rivelatorie del granchio appena preso da decine di naviganti. Ma questa sostanziale distinzione non ha fermato gli utenti a proseguire ad offendere il malcapitato. Come lui stesso ha raccontato a The Globalist.
L’altra faccia della medaglia
Il ragazzo fortunatamente dichiara di aver anche trovato alcuni utenti pronti a difenderlo e a dimostrare le incongruenze di tale condotta. Ciò ha portato diversi commenti ad essere stati rimossi dagli stessi autori, altri però hanno proseguito questa caccia alle streghe senza nemmeno prendere in considerazione l’evidenza che si stava dimostrando. Rischiando quindi anche una denuncia di carattere penale. Perché, ricordiamolo, offendere sui social è reato.
Cosa ci dimostra questa storia?
Innanzitutto l’inutilità di inneggiare al linciaggio mediatico, per quanto un fatto di cronaca ci possa sconvolgere, nessuna parola di scherno può sostituirsi alla giustizia di un giudice. Tanto più se tale azione viene compiuta alla cieca, avventandosi sulla barra della ricerca e sfogando il nostro odio sul primo profilo che appare. I casi di omonimia sono tantissimi, quanto la probabilità di far passare un brutto quarto d’ora ad un soggetto a caso, un totale innocente come voi. Anche queste piccole cose possono portare l’inquinamento del dialogo sulla rete, ed insieme possiamo provare ad invertire questa tendenza.
L’hate speech è sempre sbagliato
Abbiamo evidenziato un caso di una spiacevole omonimia, ma in generale siamo contrari a qualsiasi attitudine “forcarola” che può essere inneggiata in un canale multimediale. Dove la negatività, il razzismo e la violenza verbale possono trovare facile dimora in un ambiente apparentemente neutro e privo di sguardi esterni. L’ambiente che coltiviamo sulla rete è lo stesso che approcceranno i nostri figli un domani, sta anche a noi non cadere nella tentazione di facili qualunquismi e volgarità gratuite.
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